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«No a leva (e violenze)»: israeliana in cella

In prigione per essersi rifiutata di prestare il servizio militare obbligatorio. Dal 10 gennaio, una diciannovenne israeliana si trova nel carcere militare numero 6 di Tel Aviv per aver scelto l’obiezione di coscienza.

Si chiama Tair Kaminer, viso tondo e occhi vispi dietro una grande montatura di occhiali neri. «Qualche mese fa – aveva scritto sulla sua pagina Facebook prima di essere portata in cella – ho concluso un anno di volontariato con gli scout israeliani a Sderot. Tra pochi giorni andrò in prigione», perché in Israele il servizio militare è obbligatorio. A Sderot, cittadina di confine con Gaza, Tair ha lavorato a contatto con bambini che vivono in una zona di guerra.
Vedendo in loro «insidiarsi l’odio, sin dalla tenera età», la giovane volontaria ha deciso di non prestare il servizio militare che ha luogo comunemente dopo le scuole superiori. La punizione per diserzione, prevista dalla legge israeliana, prevede 20 giorni di carcere, rinnovabili finché l’obiettore non cambia idea. È così che hanno fatto avanti e indietro in prigione, per anni, noti disertori che, oggi, hanno il supporto del (davvero esiguo) movimento di obiettori di coscienza. Gruppi come Yesh Gvul, Mesaravot (letteralmente: coloro che si rifiutano) e altri ancora, tutti in contatto nella pagina Facebook “Refusal to serve in the Idf” (Israeli defence forces).
Tair viene da una famiglia particolarmente sensibile al tema dei diritti palestinesi, anche suo cugino, Matan Kaminer, spese complessivamente due anni in prigione per non aver prestato il servizio militare 13 anni fa. «Parlando con alcuni amici – ha detto Tair in un videomessaggio sui social network –, sono stata accusata di ferire la democrazia non obbedendo alle leggi dello Stato. Ma i palestinesi nei Territori occupati – ha osservato la diciannovenne – vivono sotto le leggi del governo israeliano anche se non l’hanno eletto». Dal movimento Mesaravot fanno sapere che al momento «Tair è l’unico obiettore di coscienza in prigione in Israele. Avrebbe potuto scegliere il servizio civile, evitare il carcere e non fare clamore, ma ha deciso con di dare l’esempio a chi come lei vorrebbe contestare il servizio militare, l’occupazione e non ne ha il coraggio».
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http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/No-a-leva-e-violenze-israeliana-finisce-in-cella-.aspx
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Reato di clandestinità

Clandestinità, un reato inutile

Ci saranno oltre seimila i migranti e rifugiati provenienti dalle diocesi del Lazio ad assistere domenica prossima all’Angelus del Papa per poi attraversare la Porta Santa con la Croce di Lampedusa e celebrare la Messa nella Basilica di San Pietro in occasione del Giubileo dei migranti e della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato.
Alla conferenza stampa di presentazione della Giornata ha partecipato anche monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, che ha sottolineato come siano 27mila i migranti accolti oggi nelle parrocchie, comunità religiose, monasteri e santuari di tutta Italia.
Monsignor Perego ha voluto anche ribadire che «depenalizzare il reato di clandestinità sarebbe un atto di grande intelligenza per il nostro Paese». «Se dovesse permanere il reato – ha aggiunto – proseguirebbe una realtà inutile da tutti i punti di vista che rischia di incrinare lo Stato di diritto: una persona non deve essere penalizzata per uno stato ma solo se commette un reato. Una condizione di vita non può essere un reato». La depenalizzazione insomma «sarebbe un atto importante per far superare le paure irrazionali che, tante volte, fanno dimenticare i diritti fondamentali delle persone».

http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/giornata-dei-migranti.aspx
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Arriva in Italia «Refugees Welcome», l’Airbnb per i profughi tedesco

Un sito online per mettere a disposizione la propria casa e ospitare i profughi in arrivo

di Silvia Morosi 

Un esempio di solidarietà con lo scopo di favorire la diffusione dell’accoglienza domestica di coloro che chiedono asilo e dei rifugiati. Arriva anche in Italia il network internazionale «Refugees Welcome», nato in Germania nel 2014. Grazie al lavoro volontario e autofinanziato di persone altamente qualificate, il sito opera per mettere in rete professionalità e territori, collaborando con istituzioni pubbliche e associazioni competenti sui temi dell’accoglienza. La finalità principale è quella di contribuire a creare un nuovo modello di inclusione che permetta ai richiedenti asilo e ai rifugiati di inserirsi positivamente e in modo attivo, il prima possibile, nella società italiana. L’idea è venuta a un gruppo di giovani ragazzi berlinesi che hanno messo in piedi un sistema per far fronte ai nuovi arrivi. Il sistema è molto semplice: dopo essersi registrati fornendo informazioni sulla casa che si intende mettere a disposizione, «Refugees Welcome» si occuperà di mettere in contatto l’ospitante con chi ha bisogno di un tetto sopra la testa attraverso una delle organizzazioni umanitarie che operano sul territorio. Il tutto assicurando il massimo supporto possibile per far fronte alle spese, attraverso raccolte fondi e finanziamenti pubblici. «Vogliamo trasmettere il concetto che, in passato, i profughi avevano una vita simile alla nostra: non sono persone diverse da noi, sono state costrette a lasciare la loro vita. Sono persone normali, ma spesso su di loro c’è visione stereotipata e piatta», ha spiegato Fabiana Musicco, co-founder della piattaforma.

Le regole dell’accoglienza

L’accoglienza domestica può essere un’esperienza di reciproco scambio, di conoscenza e responsabilità favorendo l’incontro tra culture e persone differenti e creando così reti sociali e nuovi processi di inclusione. Tutto questo è facilitato dalla tecnologia: grazie a un sito web (www.refugees-welcome.it) attivo da lunedì 21 dicembre, sarà possibile coinvolgere soggetti ospitanti, rifugiati, associazioni e tutor che agiscono da facilitatori sul territorio. In che modo? La piattaforma è composta da differenti sezioni che garantiscono un’assistenza completa e una guida al processo di accoglienza. Chi decide di intraprendere il percorso di ospitalità può registrarsi al sito offrendo una stanza libera nella propria casa per un periodo che va da tre a sei mesi. La permanenza minima di tre mesi è stata fissata affinché le persone prendano responsabilmente a cuore questa esperienza: in Germania ad esempio, in molti decidono di proseguire la convivenza anche dopo i tre mesi iniziali. La piattaforma attiverà inoltre micro campagne di crowdfunding per aiutare a sostenere economicamente le nuove convivenze. Una volta ricevuta una sottoscrizione lo staff di Refugees Welcome intraprende un percorso di conoscenza più dettagliata, attivandosi tramite il contatto diretto del candidato ospitante.

Il ruolo di volontari e crowfunding

Refugees Welcome è già attiva in Lombardia, Piemonte, Toscana, Lazio e Veneto con rapporti avviati con alcune Prefetture e Enti Locali; per le richieste provenienti da altre Regioni l’associazione si attiverà immediatamente per mettersi in contatto con un’associazione con la quale dialogare e con chi desidera conoscere e ospitare un richiedente asilo. L’obiettivo è quello di espandere la rete e le connessioni, garantendo una copertura su tutto il territorio nazionale grazie all’aiuto di volontari e attivando varie forme di crowfunding per il supporto economico dei soggetti ospitanti. «Quello che desideriamo è un cambiamento a 360° della modalità di accoglienza, vogliamo mettere al centro la persona accolta e la comunità accogliente. La prima non può essere lasciata nel limbo del processo di richiesta senza un supporto amicale, la seconda non può essere spettatrice di una politica di inclusione. Solo nel dialogo tra ospite ed ospitante la nostra società potrà crescere e fiorire», sottolineano Germana Lavagna e Matteo Bassoli, fondatori di Refugees Welcome Italia.

Ci ha fatto molto piacere aver ospitato -durante la serata sui migranti organizzata da I CARE al cineteatro “S. Amanzio” lunedì 14 dicembre- Germana Lavagna, proprio di “Refugees Welcome” che ha presentato in anteprima assoluta il progetto!

Fonte:

http://www.corriere.it/italia-digitale/notizie/arriva-italia-refugees-welcome-l-airbnb-profughi-tedesco-ce69f0b4-a7e8-11e5-927a-42330030613b.shtml

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Kenya, gli ostaggi cristiani salvati dai musulmani: «Non ci separiamo»

I miliziani somali assaltano un autobus. E alla fine costretti a lasciare liberi tutti
di Michele Farina

Nell’aria fredda dell’alba non sono riusciti a dividerli: i musulmani in piedi, i cristiani a terra. I primi liberi di risalire sul pullman. I secondi sdraiati sul ciglio della strada, aspettando il proprio turno e un proiettile alla tempia, come era successo ai passeggeri di un altro bus nel novembre scorso, sulla stessa via nel Nordest del Kenya al confine con la Somalia. Com’era successo agli spaccapietre di una cava poco più a nord nel dicembre 2014. E agli studenti della non lontana università di Garissa nell’aprile di quest’anno. No, loro alle 6 e 45 del mattino non si sono lasciati sorprendere e dividere: con lo stesso biglietto, lo stesso diritto, scambiandosi addirittura gli abiti per ingannare gli assalitori, hanno sfidato insieme la morte e insieme sono sopravvissuti (quasi tutti) davanti ai miliziani di al-Shabaab pronti alla strage.

Sembra così bella, la notizia arrivata dalla B9 tra Elwak e Kotulo, che viene quasi il sospetto che un politico locale l’abbia romanzata, che vien voglia di imparare a memoria i puntini abitati più vicini a quel ciglio di strada, Dabacity e Borehole II, e ricordare il nome della compagnia (Makkah) il cui autista ferito dai miliziani ha confermato la storia alla Bbc tramite un funzionario.
L’inseguimento, una sventagliata di mitra, tre persone ferite, una morta, il pullman Nairobi-Mandera che si ferma, la gente che scende secondo il racconto fatto al quotidiano keniano The Nation dal vice capo della polizia Julius Otieno e dal governatore della provincia Ali Roba. Un passeggero cerca di fuggire nella boscaglia ma i ragazzi di al-Shabaab, il gruppo affiliato ad Al Qaeda basato in Somalia (il nome significa «i Giovani»), lo uccidono sparandogli alla schiena. Fanno capire che non scherzavano. Che è questione di vita o di morte. Poi cercano di dividere il gruppo in base alla religione: «I non cristiani possono risalire bordo». E nessuno si è mosso. La risposta, secondo il governatore: «Uccideteci tutti, o lasciateci andare». Un testimone di nome Abdirahiman ha detto al quotidiano The Standard che, quando si sono accorti dell’attacco, i musulmani sul pullman da sessanta posti avevano già cercato un modo per proteggere i cristiani: «Ad alcuni abbiamo dato i nostri vestiti, per impedire che fossero individuati per l’abbigliamento».

Nell’attacco del novembre scorsoi miliziani avevano intimato ai passeggeri di recitare la shahada, «la testimonianza» di fede islamica. Quelli che non la sapevano erano condannati: sdraiati a terra in fila. Da sinistra e da destra in due hanno cominciato a uccidere. Ventotto morti, 19 uomini e 9 donne, in maggioranza insegnanti. Unico sopravvissuto, Douglas Ochwodho, preside, che tornava a casa per Natale. Salvo perché stava al centro della fila, ed entrambi i killer hanno pensato che gli avesse già sparato il compagno.

Quella parte di Kenya è abitata in maggioranza da popolazioni somale musulmane. Dal 2011 le truppe di Nairobi combattono gli integralisti oltre confine. Le stragi fanno parte di una guerra che si fa sempre più «sporca». Ai primi di dicembre una fossa comune con 20 corpi di somali è stata scoperta non lontano da Mandera, compresa una donna arrestata pochi giorni prima. Le squadre antiterrorismo sono accusate di omicidi sommari, accuse respinte dalle autorità. Di fronte a tutto questo i passeggeri di un pullman, l’altra mattina tra Datacity e Borehole II, hanno dato al mondo una «testimonianza» preziosa.

Fonte:

http://www.corriere.it/esteri/15_dicembre_22/kenya-shabaab-assalto-autobus-ostaggi-musulmani-cristiani-solidarieta-a1450c76-a89d-11e5-8cb6-cc689478293e.shtml

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Monza, nasce la Trattoria Popolare: “Se non puoi pagare il conto dai una mano”

Un pasto completo a 10 euro per garantire cibo sano e buono anche a chi è in difficoltà. Se poi non si riesce a saldare il conto si può fare qualche lavoretto in cucina o in sala
di Gabriele Cereda

A Monza apre una Trattoria Popolare, che propone una cucina per tutti. O meglio per chi si trova in difficoltà e per gli emarginati. Dietro ai fornelli del locale di via Montegrappa, 48, in zona San Rocco, c’è lo chef Paolo Longoni, un passato da giornalista e una passione per la cucina e per tendere la mano agli altri.
Ed è proprio questo lo spirito del locale: favorire l’accesso al cibo sano e di qualità per i cosiddetti nuovi poveri, che non si rivolgono ai tradizionali canali di aiuto. Così chi non ha i soldi per saldare il conto si vede arrivare tra le mani un vaucher orario. “Con quello può svolgere piccoli lavoretti nel locale, dare una mano in cucina per saldare il conto”, spiega Lo chef. I prezzi per un pasto completo sono popolari, come vuole il nome del locale: intorno ai 10 euro, ma se qualcuno vuole lasciare qualcosa di più, quei soldi verranno messi a disposizione di quanti non possono pagare il conto per intero. Il progetto, che vede coinvolti Fondazione Monza Brianza, Africa 70 e il circolo Arci Scuotivento non ha il solo scopo di favorire l’accesso al cibo sano e di qualità a chi si ritrova ai margini della società, ma anche di includere questa fascia in attività e percorsi di sostegno che si concretizzino attorno ad un luogo. “La cucina diventa un’occasione per riunire una comunità in un quartiere tradizionalmente difficile come quello di San Rocco, con un’alta percentuale di abitanti immigrati e provenienti dalle fasce deboli. L’intera città di Monza verrà inoltre coinvolta per promuovere una rete di solidarietà a cui ogni individuo può, all’occorrenza, rivolgersi per uscire da una condizione di emarginazione”, spiega Margherita Motta di Arci Scuotivento.

Fonte:

http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/12/19/news/monza_nasce_la_trattoria_popolare_se_non_puoi_pagare_il_conto_dai_una_mano_-129772961/